Dreamers

Dreamers

Arma Di Taggia, Villa Museo Boselli - DAL 16 Giugno al 19 Agosto2012

Non capita spesso di entrare in una mostra ed essere accolti da una folla di volti dipinti. Tanto belli quanto comuni, ci guardano invitandoci a seguirli nel mondo che essi popolano: uno spazio mentale in cui si chiede a noi di guardare dentro di noi, attraverso un processo di coinvolgimento e partecipazione paragonabile a quello attivato dai celebri specchi di Michelangelo Pistoletto. Ciascuno di quei volti, infatti, può essere il nostro. Solo che stavolta l’interazione è ottenuta ricorrendo alla tecnica più tradizionale che si possa concepire, e a un linguaggio che punta a catturare l’occhio con la franchezza di un’immagine sempre riconoscibile: ma in verità costruita con sapienza nei riferimenti plurimi ai suoi modelli, vicini o lontani che siano, e rivela più sfaccettature di quanto la normalità riproduttiva delle apparenze lasci intendere. Più che in un gioco di specchi, insomma, siamo attratti in un gioco di rifrazioni: vediamo noi stessi attraverso una nostra immagine grafica, virata su un colore dominante. E ci vediamo come da qualche parte abbiamo già visto qualcuno. Siamo noi ma potremmo essere altri, e insieme a questi altri partecipiamo di una comunità artistica virtuale.


   La sfida dell’interferenza prosegue quando il visitatore vero,  dopo essersi mescolato alla calca dei visitatori simulati, si imbatte in una sorta di mostra nella mostra che par fatta di soli disegni infantili: ma anche in questo caso egli si trova a misurarsi con un’illusione, perché solo alcuni di quei disegni sono opera di veri bambini, mentre altri si devono alla dissimulata mano dell’artista. Potremmo qui rammentare la famosa battuta di  Picasso che diceva di aver imparato molto più tempo a imparare a dipingere come i bambini che come Raffaello; e quindi riflettere ancora su quanto la spontaneità epidermica sia in realtà presupposta da un lungo studio, e quindi da una lotta con se stessi. Scoprire la propria dimensione significa anche saper mettere da parte quel che si è imparato, sicché sapersi fare bambini non è un primo passo, è una conquista. Ma ancora una volta la pittura ci invita a giocare stando al gioco, e al tempo stesso a non fermarci alla sensazione ludica, ma anzi a smontarne il meccanismo. Poiché la pittura, come la vita, è un sistema di false realtà e false certezze.
   Attrazioni circensi d’altri tempi, nani e acrobati dai costumi improbabili, conigli magici e pupazzetti appesi - quasi silhouettes ritagliate sul tessuto, ma impastate di colore festoso -  amplificano quindi il discorso sull’illusionismo con la forza dei grandi formati e dei forti stacchi luminosi: si prendono lo spazio della mostra definendo di fatto un altro mondo, dove tutto è insieme naturale e straniante, e nel quale non possiamo non dirci coinvolti. Perché non possiamo evitare il confronto con i nostri interlocutori dipinti, grandi come e più di noi. Ovvero con noi stessi in versione bidimensionale e un po’ meno grigia di come ci rappresentiamo e il nostro mondo ci rappresenta. Naturalmente dobbiamo essere pronti a entrare come ad uscire, consapevoli che ogni mostra di Nathalie allestisce un universo parallelo e alternativo. Ma piaccia o no, ci siamo dentro e dobbiamo scommettere, come direbbe Pascal. Anche perché la prima a scommettere, con grande serietà come in tutti i giochi, è l’artista.
   Nathalie Silva ci ha invitato negli ultimi anni a ritrovare confidenza con figure intere di intonazione naturalistica, staccate con nettezza da fondi compatti e vivaci, che danno l’idea di essere appena entrate nel quadro, o siano in procinto di uscirne per fendere lo spazio reale. La loro presenza sulla tela e poi sul muro è quasi transitoria. Anche quando stanno ferme e guardano in macchina, sembrano piuttosto frammenti di un’azione. La confidenza chiede che il visitatore completi quell’azione, entrando in sintonia con il loro mondo e sentendosene rispecchiato. Un mondo che vive però esclusivamente all’interno della pittura – come confermano pesci e crostacei proposti sul nero con assoluto splendore cromatico, in un’altra serie memorabile di Nathalie – e dunque si configura in tutti i sensi come realtà alternativa.  Lo abitano persone comuni, addirittura anonime, colte nella semplicità di gesti quotidiani (come nell’altra serie delle “pantere grigie”, dall’aria tutt’altro che ferina), particolari solo perché sono dipinte . E perché, come ogni altro elemento di questa realtà, vivono come in sospensione nel vuoto di uno spazio che sta a noi riempire, mentre la loro fisicità è sempre rimessa in discussione da sfumature, sgocciolamenti, dilavamenti di colore; ovvero da una sintesi grafica che recupera frammenti di scrittura e decorativismi di sapore primitivistico.


   Non c’è colpo di pennello che non tenda una trana di rimandi inesausti e inesauribili a un orizzonte che avvolge Warhol e Kitaj, pubblicità e fumetto, glamour e pop, Hockney e Schifano: ma a suo modo alza un argine contro la deriva estetica del consumo delle immagini, riconducendo l’immagine di consumo alla dignità dell’esistenza pittorica : ogni figura è una e irriproducibile perché dipinta, e dunque ogni essere è uno. Di primo acchito, certo, ci facciamo prendere dal soggetto, come quando guardiamo una fotografia soltanto in funzione del suo contenuto. Ma poi siamo portati a riconoscere, proprio grazie alla qualità del segno di una pittura purissima, fatta solo con tela, pennello e colori senza manipolazioni di materiali eterogenei, che il vero contenuto è il modo in cui esso è dipinto, e dunque la perfetta coincidenza di contenuto e contenitore. In questo sistema, un uomo qualunque non è mai un uomo qualunque perché possiede la stessa potenzialità evocativa – ora onirica ora affettiva ora surreale – di un illusionista, di un animale fantastico, di una qualsivoglia immagine archetipica.


   Una delle cifre creative più forti di Nathalie consiste proprio in questo gigantesco – in ogni senso – processo di attualizzazione e personalizzazione della cultura pop, in cui la tendenza a creare icone e a farne le pedine di un gioco combinatorio è temperata da una vena di introspezione e di intimismo che restituisce centralità all’uomo.  In tal senso essa si inserisce nel vivo di una ricerca internazionale che ha ormai trasceso la stessa postmodernità.  Trovo rilevante – per una volta non si sprecherà la parola evento – che questa ricerca si affacci ora da un lembo di Riviera ligure, terra che reca segni indelebili delle contraddizioni della modernità: per ripensarla criticamente, e progettarne il futuro, c’è ora bisogno anche di avere negli occhi spazi pittorici come quelli sognati e costruiti da Nathalie.
Fulvio Cervini

 

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